Strategie partecipative

e decentramento municipale: esperienze di periferie

Carlo Cellamare, gennaio 2008
CGIL Roma e Lazio/“Le periferie nella città metropolitana” Roma, 23-24 gennaio 2008

“Luoghi” di “periferia”

Un sguardo dal basso e dall’interno delle periferie ci restituisce un’immagine che non è solo caratterizzata dai tradizionali stereotipi del degrado, ma anche da una maggiore complessità dei “luoghi”, caratterizzati da forti intrecci tra gli abitanti e i contesti di vita, le relazioni d’uso e di senso, disagi e conflitti, riconoscimento e senso di appartenenza, ecc. Ci può restituire il pasoliniano “corpo della città”, rivelandoci una periferia dalle molte facce e che non può essere interpretata in maniera univoca o per tassonomie.

In ogni caso, non è più vera (o non è più completamente vera) l’equazione periferia = luogo lontano dal centro = luogo degradato (di scarsa qualità edilizia e urbanistica) = luogo dove abitano le classi più povere = luogo del degrado sociale = concentrazione dei problemi sociali = maggiore presenza della criminalità organizzata. Così come non è più vera (o non è più completamente vera) l’immagine, anche un po’ stereotipata, della periferia romana fatta essenzialmente delle borgate storiche, dell’abusivismo e dei grandi quartieri di edilizia economica e popolare. Tutto questo non significa che non ci siano problemi sociali o situazioni di degrado, che invece a Roma continuano ad essere significativi: pensiamo alle nuove baraccopoli degli immigrati, all’emergenza casa, ai campi-rom o al recupero non ancora completato delle ex borgate abusive. Bisogna però pensare alle periferie anche come luogo dalle grandi potenzialità, come contesto dalle risorse importanti e ricco di un patrimonio di “energie positive”.

Il modo con cui è cresciuta e si è stratificata la città, il suo carattere a macchie di leopardo, la dispersione sul territorio, una quotidianità composta sia da una vita urbana a “corto raggio” che da una a “lungo raggio” che spazia su tutta la città, fanno sì che Roma (come forse in molte altre realtà urbane italiane e straniere) è una città di città, in alcuni casi dotate anche di una relativa autonomia e che possono diventare microcosmi per i propri abitanti. In questi contesti si è registrato un profondo radicamento e la costituzione di luoghi che gli abitanti considerano un proprio “centro”, spesso anche qualificati o riqualificati dagli interventi pubblici (1.

Inoltre, l’evoluzione più recente della città, la combinazione degli interventi di riqualificazione urbana e di recupero dell’abusivismo, l’espansione privata e le operazioni commerciali hanno determinato lo svilupparsi di situazioni fortemente ibride. In alcuni casi, ad esempio, borgate storiche (riqualificate o meno) o aree abusive (recuperate o meno) sono diventate il cuore, il luogo centrale per le espansioni recenti che le hanno accerchiate o per le realizzazioni fuori scala dell’edilizia economica e popolare (Tor Sapienza, Labaro, ecc.). O ancora, si sono sviluppate curiose sinergie tra aree abusive storiche, dove si concentrano i luoghi commerciali e di incontro, e gli interventi di edilizia economica e popolare che avrebbero dovuto riqualificare, dove si concentrano i servizi.

Infine, assistiamo all’emergere di una serie di fenomeni, come le enclave e le grandi cittadelle commerciali, che rompono lo schema tradizionale della periferia, introducendo in forma estremamente contraddittoria elementi di qualificazione e nuove forme di degrado, proprie di un modello di vita globalizzato e postfordista.

La periferia, quindi, anche indipendentemente dalle politiche del Comune, ha una sua forte vitalità e, per alcuni versi, è anche un luogo di produzione culturale. Un caso emblematico è quello dei centri sociali che, da luogo di contestazione sono diventati luogo dove praticare un modello di vita diverso (pur con tutte le sue ambiguità) e poi luogo di produzione culturale, in senso stretto, anche con valenze economiche e con la costituzione di soggetti specifici (onlus, associazioni culturali, case discografiche, emittenti radio, ecc.).

Più in generale, molta produzione musicale, ma anche le nuove videoculture e le produzioni connesse vengono dal mondo della periferia, e non solo con riferimento alle culture giovanili. Un’intera rete di centri di produzione e di diffusione di queste culture caratterizza Roma nel suo complesso e le periferie, in particolare; ancor più rafforzate da eventi, rassegne, cicli di rappresentazioni (basta ricordare per tutti “Enzimi”, ormai riconosciuto a livello nazionale).

Colpisce, infine, anche la diffusione (capillare, molecolare, ecc.; attraverso strati sociali diversi) con cui tanti soggetti differenti, anche senza specifiche preparazioni e competenze, si impegnano in questi campi: teatro di strada, videomakers, giovani cineasti, fotografi, musicisti, organizzatori di eventi, ecc.

Una “periferia” capace di progettualità

La città di Roma, ed in particolare la sua “periferia”, è caratterizzata dallo sviluppo di una significativa società civile organizzata. E’ attraversata da movimenti urbani e sociali, oltre che da reti solidaristiche di cui peraltro ancora non si è valutata completamente la portata.

Il lavoro del gruppo di Transform Italia (2005) ci offre un’articolata “mappa dei conflitti”, conflitti legati al lavoro, all’immigrazione, alle occupazioni di case, ecc. Ma non si tratta soltanto di conflitti, ma anche della capacità di autorganizzazione che i movimenti urbani hanno saputo esprimere in questi anni, confrontandosi allo stesso tempo con la disponibilità ad ascoltare – almeno a parole – da parte delle ultime giunte di centro-sinistra (Rutelli e Veltroni) e con la loro indisponibilità spesso a dare seguito concreto alle sollecitazioni emergenti dal basso. Il tema della partecipazione è all’ordine del giorno in questa città in trasformazione. L’amministrazione comunale lavora in una situazione a due facce, contraddittoria. Da una parte, si considera fortemente “partecipativa”, e in qualche modo lo è, in confronto a tante altre realtà italiane, soprattutto delle grandi città. Dall’altra, nella maggior parte dei casi i processi partecipativi si sviluppano con estrema difficoltà, per lo più al solo livello della consultazione e a costo di dure lotte degli abitanti. Il dibattito che si è acceso intorno al nuovo PRG e al regolamento della partecipazione che vi era previsto ne è stato una testimonianza emblematica. A fronte quindi, di un reale e sincero impegno che alcuni tecnici dell’amministrazione capitolina investono nella dimensione partecipativa, il contesto complessivo in cui si sviluppa è fortemente limitante e testimonia di una carenza di cultura politica particolarmente significativa.

La periferia è caratterizzata fortemente da comitati e reti sociali autorganizzati e queste realtà sono capaci di una forte progettualità e non solo di una tendenza alla protesta e alla recriminazione. E’ da valutare più attentamente il radicamento territoriale di queste realtà, ma è indubbia la proliferazione in tutta la città di comitati di quartiere, associazioni e comitati locali, reti sociali, associazioni culturali e ambientaliste, social forum, ecc. che fanno della riqualificazione del proprio contesto urbano l’obiettivo fondamentale della loro esistenza ed attività. Si tratta di associazioni e comitati nati specificatamente per questo motivo, ma anche di realtà associative a scopo sociale e culturale che si impegnano su questo terreno. Questa proliferazione è stata favorita anche da un principio di decentramento avviato con la trasformazione delle Circoscrizioni in Municipi, anche se ancora molto lontano dalla sua completa realizzazione. Contesti urbani come il IV o l’XI Municipio contano più di duecento di queste realtà. In alcuni casi queste realtà si organizzano in laboratori o in Comunità territoriali (emblematico è il caso del X Municipio, ma anche quello del Laboratorio territoriale dell’XI), o sviluppano strumenti sofisticati di comunicazione (mailing-list, web-tv, newsletter on-line e riviste cartacee), o attivano processi di studio e progettazione (seminari, convegni, corsi di formazione, analisi sociali ed urbane, laboratori di progettazione, mappe interattive), anche con l’aiuto dell’Università o di altre strutture (Transform, Casale Podere Rosa, ecc.). Esistono anche coordinamenti cittadini, che però hanno più difficoltà a lavorare, sono legate a singole iniziative e spesso si trasformano in soggetti politici (interessante, ad esempio, la recente iniziativa di un coordinamento cittadino finalizzato a far rispettare quanto previsto nel Regolamento sulla partecipazione e a far prendere in considerazione le delibere di iniziativa popolare proposte ma non esaminate).

A testimoniare la maturazione e la capacità di proposta sono proprio le proposte di delibere di iniziativa popolare (“Progetto di deliberazione di competenza del Consiglio Comunale d’iniziativa popolare” previsto dallo Statuto comunale). Tra queste una delle più emblematiche è quella a favore della mobilità sostenibile nella periferia est della città, per la quale sono state raccolte decine di migliaia di firme. Per l’esattezza si tratta di una “Delibera di indirizzi al Sindaco ed alla Giunta per la realizzazione di un processo di partecipazione per i cittadini di Roma con l’obiettivo di progettare un nuovo sistema, sostenibile, di mobilità pubblica e privata, per la periferia est di Roma, che va da Saxa Rubra alla Laurentina, incentrato sull’utilizzo del tram o di un mezzo a trazione elettrica ed ecologica equivalente”. Ben quaranta comitati della periferia romana ed alcuni Municipi hanno sostenuto questa iniziativa che esprime una progettualità di grandissimo respiro ed impatta fortemente con le politiche per la mobilità del Comune. Il Comune ha approvato la proposta di delibera nella fase pre-elettorale del 2006, ma poi non vi è stato un seguito concreto su quell’indirizzo.

Bisogna notare anche un cambiamento abbastanza significativo di questo tipo di realtà associative. A differenza di quanto probabilmente avveniva negli anni ’70, dove il movimento aveva un carattere più diffuso dal punto di vista sociale, anche in forza del carattere fortemente rivendicativo rispetto agli enormi problemi sociali emergenti (pensiamo al problema della casa a Roma), attualmente le realtà associative si muovono più sulla forza impressa da parte di soggetti più motivati e più impegnati. In molti casi anche con più disponibilità di tempo e di risorse culturali. Sono ad esempio quasi completamente assenti le componenti più giovanili. E minore è il carattere di diffusione sociale. D’altro canto questo apre ad una maggiore ambiguità, perché in molti casi si verificano derive in termini di una proiezione più finalizzata in senso politico-partitico, più strumentale.

Le diverse posizioni all’interno del Comune di Roma

Diverse sono le politiche del Comune di Roma nei confronti delle periferie. Una strategia percorsa è quella degli interventi di riqualificazione urbana e delle centralità metropolitane previste dal nuovo piano regolatore. Per molti versi, in realtà, si tratta di grandi operazioni commerciali e immobiliari che solo marginalmente comportano una riqualificazione delle periferie. Consideriamo comunque la grande massa di interventi di riqualificazione urbana, che dipendono dall’Assessorato alle Politiche Urbane, e che costituiscono una notevole “massa d’urto”.

Accanto a queste politiche esistono anche quelle dell’Assessorato alle Politiche per le Periferie (ma anche per lo Sviluppo Locale, il Lavoro e la Partecipazione). Mettendo insieme le sue diverse competenze, e sotto lo slogan “Le periferie al centro”, l’Assessorato ha sviluppato politiche che hanno mirato alla riqualificazione delle periferie “dall’interno”, attivando le risorse locali: “incubatori sociali” e d’impresa, sostegno alle imprese giovanili, sostegno alle iniziative produttive e culturali locali, autorecupero, ecc.. Emblematico è il lavoro sviluppato a Corviale a partire dall’immaginario e dai vissuti degli abitanti (“Immaginare Corviale”). Un tema centrale è stato quindi quello dell’“autopromozione sociale”, per il quale è stato attivato una specifica unità organizzativa, ma anche tutto l’impegno nel campo della “progettazione partecipata”. Da questo campo di politiche sono nate anche le iniziative che caratterizzano Roma sul tema dell’Altra Economia, con il contributo del mondo associativo e dei movimenti (Città dell’AltraEconomia). A questi bisogna poi aggiungere altri tipi interventi: interventi di recupero di casali storici da destinare ad attività ed associazioni culturali, sociali e ambientaliste; riqualificazione ed incentivazioni a favore delle zone O; incentivazioni a favore dell’autorecupero, il meccanismo delle opere a scomputo, ecc. O ancora bisogna considerare i grandi concorsi internazionali per la sperimentazione di progetti di integrazione tra scuola e territorio, che comportano sia interventi strutturali (la realizzazione delle scuole, degli spazi verdi connessi, ecc.), sia progetti di formazione e di integrazione sociale. Tutti questi elementi costituiscono una grande famiglia che contribuisce alla riqualificazione delle periferie molto più che non i grandi interventi legati alle centralità.

La logica della mediazione che uccide la cittadinanza attiva

Il tema della partecipazione è stato più volte sbandierato dall’amministrazione capitolina che ne ha fatto un proprio elemento caratterizzante e di valore. Ma la questione pone alcune ambiguità e richiede un’analisi attenta, che non sia solo quella del giudizio politico ideologicamente negativo, né viceversa quella della segnalazione dei successi. Non è vero che il Comune non ha fatto nulla (e questo vale sia per l’amministrazione Rutelli che per quella Veltroni), perché qualcosa è stato fatto sia in termini materiali (ovvero di interventi nel campo dei servizi, della riqualificazione urbana, ecc.) che in termini di “apertura” ai cittadini. La percezione dei romani è di un netto miglioramento nella vita di questa città. Lo segnalano le indagini sociologiche (Censis, 2005) ma anche le interviste dirette; e questo vale anche nelle periferie. In effetti, il lavoro fatto nelle periferie da parte del Comune non è da poco. In un convegno del febbraio 2006, Nuovi scenari per le periferie, organizzato dall’Assessorato alle Periferie a Tor Bella Monaca, molti abitanti raccontavano le loro esperienze in merito, la soddisfazione (anche in luoghi difficili, siano essi Corviale o le zone ex abusive) e la percezione di essere ad un punto di svolta, con molti passi concreti ed un reale coinvolgimento dei cittadini, anche se ovviamente ancora molto è da fare.

Ma mentre da una parte vengono sviluppate alcune politiche, dall’altra ne vengono sviluppate altre, spesso anche di carattere molto diverso. Da una parte, vengono avviati e sostenuti i progetti nel campo dell’”autopromozione sociale” che ha saputo beneficiare intelligentemente dei fondi della legge Bersani, anche tramite l’iniziativa degli incubatori sociali e d’impresa. D’altra parte, però, abbiamo anche le grandi operazioni immobiliari e commerciali, che continuano a caratterizzare le modalità di sviluppo di questa città, perseverando in una tradizione consolidata. Non c’è proporzione, per esempio, tra i lampioni nuovi delle zone ex abusive (borgata Giardinetti, ad esempio), costruiti dai consorzi di autorecupero, e l’operazione “Porta di Roma” alla Bufalotta; non c’è proporzione né dal punto di vista materiale, né dal punto di vista del processo democratico. E così gli esempi potrebbero essere infiniti: da una parte la Città dell’Altraeconomia, dall’altra la proliferazione dei grandi centri commerciali lungo il raccordo; ecc.. In un recente processo partecipativo sviluppato intorno alla progettazione della centralità di Torrespaccata l’amministrazione ha fatto ben intendere che, o si permetteva ai privati di realizzare le cubature desiderate, o non si avevano i fondi necessari alla realizzazione dei servizi, compresi quelli chiesti dagli abitanti. Una sorta di “doppio vincolo”.

Al di là di una lettura critica dei processi reali che portano alla costruzione della città, quello che è importante notare è che i processi partecipativi, pur avviati, svolgono un ruolo marginale nella costruzione delle politiche e delle scelte, sia a livello locale che a livello complessivo della città. Spesso vengono costretti in un campo di opzioni pre-orientato e molto finalizzato agli specifici contesti urbani e territoriali, senza poter incidere su politiche complessive e di più ampio respiro, nonostante spesso il grande impegno in questa direzione di molte realtà sociali organizzate (pensiamo ai due campi, quello della casa e quello della mobilità, dove più si è cercato di lavorare ad un livello “alto”).

Non sembra, infatti, che sia cambiato veramente l’atteggiamento del Comune nel coinvolgimento degli abitanti e nella costruzione di un vero “spazio pubblico”, cambiando radicalmente il modello di vita politica democratica in favore di una reale cittadinanza attiva. La logica è che il Comune (e le varie istituzioni, ed i vari soggetti forti; attraverso le loro diverse anime) rimanga sempre l’unico e ultimo soggetto a gestire i principali processi di trasformazione della città. “Non disturbate il manovratore” rimane la logica prevalente. O al più una logica paternalistica che, quando le pressioni sono tali da non poter essere tralasciate, “concede” qualcosa, “va incontro alle esigenze degli abitanti”. Se, da una parte, è vero che la decisione finale, nei nostri sistemi attuali di democrazia rappresentativa, spetta appunto ai rappresentanti eletti (ed è una responsabilità a cui non devono sottrarsi), dall’altra è anche vero che i processi partecipativi (nell’attuale prospettiva di integrazione della democrazia rappresentativa con forme di democrazia diretta) non intendono sostituirsi a questi meccanismi, ma integrarli con la costituzione di “spazi pubblici” dove sia possibile costruire collettivamente le idee, le proposte e le politiche per la costruzione della città, contesti di interazione anche progettuale dove le diversità si confrontano in maniera costruttiva e che costituiscono il terreno fertile per qualsiasi forma di cittadinanza attiva.

Il vero modello “partecipativo” portato avanti dall’amministrazione capitolina rimane la logica della mediazione, dove il Comune mantiene sempre il filo dei discorsi, tiene sempre in pugno (per quanto è possibile) la gestione delle situazioni: giocare su tavoli differenti, far sì che tutti abbiano qualcosa e che tutti siano contenti, tutti gli interessi indifferentemente hanno bisogno di essere soddisfatti (che comporta anche una tendenziale rinuncia ad una politica forte e chiara), lavorare su tanti campi contemporaneamente anche contraddittori e conflittuali tra loro (l’Altraeconomia da una parte e i grandi centri commerciali dall’altra, appunto), ecc. Non si crea un vero terreno di lavoro comune che sia abbastanza trasparente, né c’è la possibilità di verificare processi articolati e complessi. Prevale la logica della mediazione, che è anche quella che “uccide” la cittadinanza attiva, la asfissia e la rende asfittica ancora prima di nascere veramente.

Il decentramento parziale

Anche sul fronte più propriamente istituzionale le ambiguità non sono da poco. L’esperienza dei Municipi appare per molti versi un’occasione importante, ma non completamente decollata e non ben valorizzata, se non in relazione alle specifiche situazioni.

Sicuramente, infatti, la trasformazione delle Circoscrizioni in Municipi e gli effetti indotti anche su questo livello istituzionale dalla legge sull’elezione diretta dei sindaci hanno rappresentato un notevole passo avanti. Si è costituito un organismo politico, e non puramente un’articolazione amministrativa, che fonda la sua principale identità proprio su una maggiore vicinanza ai cittadini (anche se, pur sempre, abbiamo a che fare con territori di mediamente 150.000 abitanti, il corrispondente di una città medio-grande). Ma questo processo, questo passaggio da articolazione amministrativa a realtà politica, con le proprie autonomie, non si è completato e non siamo di fronte a un vero e proprio decentramento, tant’è vero che il nuovo regolamento sul decentramento, tanto atteso, non ha mai visto la nascita nonostante le pressioni delle diverse realtà municipali. Il Comune mantiene il controllo della situazione, salvo aver demandato ai Municipi alcune competenze anche importanti (come quelle sul sociale).

Circa due anni fa, il Comune lancia un bando ai Municipi per idee e progetti relative allo sviluppo di metodologie di bilancio partecipativo nell’elaborazione della proprie proposte di bilancio. Alcuni Municipi hanno risposto molto criticamente dicendo che rischiava di essere una presa in giro quella di sollecitare i Municipi a praticare forme di bilancio partecipativo, se poi la decisione finale competeva esclusivamente al Comune. Questo, infatti, significava: che non si sapeva su che cifre e su che quote di bilancio si poteva attivare la partecipazione; che non si avrebbe avuta alcuna certezza che le decisioni prese a livello municipale venissero poi accolte a livello comunale con il rischio di disattendere tali decisioni (come, in effetti, è poi avvenuto); che non si aveva alcuna possibilità di incidere veramente sul processo decisionale complessivo.

In questa cornice, che significa peraltro spesso forti conflitti tra i Municipi e il Comune (ancora una volta paradossalmente), i Municipi si sono mossi in alcuni casi con grandi aperture verso il territorio (2, ma in altri con tante ambiguità, replicando i modelli dell’amministrazione centrale e dando vita ad una sorta di centralismo municipale. Ma, quella dei Municipi, rimane un’esperienza importante, non foss’altro per il rapporto più diretto che si può instaurare tra i cittadini e le istituzioni.

Ex zone O e toponimi

Diverse sono le situazioni che possono essere considerate di questo particolare intreccio, nell’ambito delle periferie romane, tra politiche dell’amministrazione (anche a carattere partecipativo), confronto tra il livello municipale e quello comunale, ambiguità della partecipazione (sotto diversi aspetti), vitalità del tessuto sociale. Emblematico è il caso delle zone abusive o, meglio, ex-abusive.

Come noto, ai fini della loro riqualificazione le zone abusive furono perimetrate ed inserite, attraverso la Variante delle Certezze, nel piano regolatore (zone O). Per esse era prevista l’elaborazione di un piano particolareggiato di recupero ai fini poi della realizzazione degli interventi di riqualificazione. Questi piani, di carattere pubblico ed elaborati dal Comune, sono stati redatti nel corso degli anni, anche se non tutti approvati (attualmente si possono considerare circa 70 piani approvati). Per la realizzazione delle opere di infrastrutturazione primaria (strade, fognature, illuminazione pubblica, ecc.) e secondaria (scuole, servizi, ecc.) previste dai piani particolareggiati il Comune, accanto alla realizzazione diretta, ha introdotto una procedura innovativa, permessa dalla legislazione regionale, unica di questo tipo in Italia. Le opere di infrastrutturazione, infatti, possono essere realizzate anche da un Consorzio tra i proprietari delle aree (che siano residenti o meno), denominato Consorzio di Autorecupero (o nella versione dell’Associazione Consortile), costituito attraverso uno specifico Statuto. Gli aderenti versano una propria quota di adesione in cui confluiscono (oltre una quota minima per il funzionamento e la gestione del Consorzio) gli oneri che i proprietari avrebbero dovuto versare al Comune per sanare la situazione e per la realizzazione delle opere (vengono quindi definite “opere a scomputo” degli oneri dovuti). Tralasciando i meccanismi specifici (amministrativi, procedurali, finanziari, ecc.) che caratterizzano il funzionamento dei Consorzi e la realizzazione delle opere, la sostanza è che i proprietari, attraverso questi Consorzi, hanno la possibilità di autogestire la realizzazione delle opere, comprese le fasi di progettazione, di scelta delle priorità, di realizzazione, di verifica della qualità, ecc. Il Comune svolge un ruolo di supporto, supervisione e coordinamento, di valutazione della qualità (attraverso bandi che definiscono i criteri per l’elaborazione dei piani e dei progetti), di approvazione dei progetti, di garante finanziario.

Si tratta, quindi, per molti versi di un’esperienza di tipo partecipativo, e così la considera il Comune: un’opportunità per favorire una riappropriazione dei luoghi, una maggiore capacità di identificazione, una responsabilizzazione rispetto al bene comune, lo sviluppo di attività economiche connesse. In realtà, il Comune trae un vantaggio non indifferente dal fatto che si alleggerisce degli oneri di realizzare e gestire le opere, dell’amministrazione minuta e ordinaria, concentrandosi piuttosto su alcuni interventi di particolare importanza. Ed inoltre i Consorzi di fatto assorbono le conflittualità minute e diffuse che quindi vengono filtrate rispetto al Comune. Ma soprattutto i proprietari tendenzialmente delegano ai Consorzi la gestione delle situazioni, occupandosi di difendere piuttosto eventuali propri interessi minuti, come una sorta di grande “assemblea condominiale”. L’esperienza appare quindi caratterizzarsi piuttosto come una sorta di “amministrazione partecipata”, che pure è molto importante, ma è limitata rispetto alla costruzione di uno “spazio pubblico”.

In origine i Consorzi sono nati sotto lo stimolo e la pressione di persone più motivate e più mobilitate, nell’impegno della riqualificazione dei propri luoghi di vita. In questo senso, sono apparsi (e, in parte, lo sono) come un’opportunità per realizzare ciò che era stato sempre difficile realizzare. Con l’andare del tempo, i Consorzi, soprattutto attraverso i loro piccoli nuclei direttivi, si sono caratterizzati come piccoli centri di gestione delle attività (comprese quelle di affidamento degli incarichi di progettazione e di realizzazione delle opere che, sebbene non eccezionalmente remunerativi, innescano comunque una significativa economia locale), nodi di reti locali di interessi, micropoteri locali dove si fa incerto e ambiguo il confine tra il leader seriamente impegnato per la comunità locale e il piccolo potentato proiettato verso la vita politica di livello locale, generalmente municipale. Tra l’altro si è innescato un fenomeno per cui sono nate o si sono sviluppate alcune organizzazioni, generalmente anch’esse a carattere consortile, che riuniscono più Consorzi di Autorecupero. In particolare, il CPR (Consorzio Periferie Romane), l’Unione Borgate e il CARS (Consorzi Associati Roma Sud). Si tratta di organizzazioni che hanno permesso di dare maggiore forza ai Consorzi e che forniscono un importante supporto tecnico-logistico alle realtà singole che sono indubbiamente più deboli. D’altra parte, sono diventati interlocutori privilegiati dell’amministrazione capitolina andando a costituire un livello intermedio di micropotere nel vasto panorama delle periferie. Il Comune trae vantaggio dalla riduzione degli interlocutori e delle conflittualità, ma la dimensione partecipativa finalizzata alla costruzione del bene comune sembra chiaramente allontanarsi.

In realtà, i processi partecipativi relativi ai Consorzi di Autorecupero sono molto differenziati tra loro e offrono un panorama vasto, a seconda dei soggetti specifici coinvolti e delle situazioni territoriali particolari. Bisognerebbe, in particolare, approfondire il rapporto che i Consorzi instaurano con i Comitati di Quartiere. Nella maggior parte dei casi i CdQ hanno dato vita ai Consorzi, ne sono stati i nuclei propulsori e di aggregazione. Ora, nella maggior parte dei casi, convivono, anche sostenendosi reciprocamente. Ma è chiaro che la maggior vitalità è, paradossalmente, nei CdQ, capaci di proposte complesse, articolate ed integrate, generalmente con una visione più ampia e motivata.

L’esperienza dei Consorzi di Autorecupero è risultata talmente significativa ed efficace che il Comune l’ha estesa anche ad altre aree, ai cosiddetti toponimi. Il fenomeno dell’abusivismo, infatti, non si è concluso dopo la perimetrazione delle zone O. Il Comune quindi si trova a dover fronteggiare aree con edilizia abusiva, sanata con i più recenti condoni edilizi, ma situate al di fuori delle zone O perimetrate. Data la loro bassa densità è anche difficile una loro perimetrazione. Tali aree sono i toponimi, denominazione che nasce proprio dalla difficoltà di una loro chiara perimetrazione e definizione amministrativa. I toponimi sono stati a loro volta inseriti nel nuovo piano regolatore. Il Comune ha previsto per essi la possibilità di costituire dei Consorzi (ma in molti casi si tratta di estensioni dei Consorzi già esistenti) finalizzati non solo alla realizzazione delle opere, ma anche alla redazione dei piani particolareggiati che qui – a differenza delle zone O – mancano. Una sorta di “urbanistica contratta” o “compartecipata con i proprietari abusivi”. Il Comune, attraverso alcuni bandi, detta i criteri per l’elaborazione dei piani e successivamente approva. Attualmente siamo nella fase di valutazione ed approvazione dei piani. Le aree interessate sono circa 83. La redazione dei piani, tra l’altro, permette la revisione dei perimetri dei toponimi (compresa una loro estensione) e la definizione delle cubature aggiuntive che potranno essere realizzate a completamento. Evidentemente si tratta di una situazione estremamente delicata e fortemente a rischio, che pone alcune problematicità.

1) Diversi studi, ed in particolare uno specifico del Cresme, hanno evidenziato l’esistenza di circa 200 “microcittà” in cui può essere articolata Roma: “Roma è talmente grande e composta da modelli urbani così diversi che la conoscenza di un luogo, la confidenza che ne deriva, la possibilità di riconoscere ed essere riconosciuti, diventa valore urbano, paradossalmente indipendentemente dalla qualità del luogo. Tant’è vero che il principio di forte identità residenziale della popolazione vale, pur con le naturali diversità, tanto per le Circoscrizioni centrali, quanto per quelle della periferia, per le zone ricche di funzioni e per quelle povere. Alla fine, identità residenziale e centralità non coincidono. […] Roma è una città complessa, molteplice, e gran parte dei cittadini ha un uso “corto” dello spazio urbano. E’ un uso legato a pochi luoghi, la città viene percepita per “punti” e “microaree” e per percorsi di attraversamento. I romani conoscono, nella situazione più favorevole, tre, quattro, cinque microcittà: il luogo dove abitano, il luogo dove lavorano, il centro e/o il luogo dove vanno a divertirsi o fare acquisti, poco altro” (Bellicini, 2003, p. 198).

2) Non bisogna tralasciare il fatto che alcuni Municipi hanno utilizzato, e forse anche a ragione, la leva della pressione dal basso per sollecitare alcune decisioni che altrimenti l’Amministrazione centrale non avrebbe mai preso.

Riferimenti bibliografici

Bellicini L. (2003), “Le ‘microcittà’ di Roma e il nuovo piano regolatore”, in Urbanistica, n.120
Transform Italia (a cura di, 2005), La riva sinistra del Tevere. Mappe e conflitti nel territorio metropolitano di Roma, Roma
Censis (2005), Roma al 2015: gli scenari evolutivi della città. Le aspettative dei romani per il futuro prossimo, Roma

e decentramento municipale:

esperienze di periferie

Carlo Cellamare